Su quale sponda del mare
Vita da Nomade #14 | È come se, nel susseguirsi delle decisioni quotidiane, a scegliere non fossi io, ma qualcun altro.
Ciao,
in questo numero parto dall’osservazione di una routine tranquilla per esplorare cosa si nasconde nelle pieghe più inaspettate di certe scelte apparentemente innocue, magari fatte per caso. Parlo di nomadismo, lo giuro. Ma la prendo larga, come piace a me.
Per chi è nuovo, mi chiamo Vincenzo Rizza e da quattro anni vivo uno stile di vita nomade e minimalista, alternando il lavoro da freelance designer a lunghi viaggi zaino in spalla. Dopo aver attraversato il Sud America via terra, ora mi trovo in Sicilia, in una fase di transizione. Alcuni la chiamerebbero casa.
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E nel frattempo, Tolstoj aspetta
identità · avversari
Parlare di nomadismo stando a casa può sembrare fuori luogo, eppure è proprio questa pausa che mi sta offrendo l’opportunità di esplorare temi che, durante i viaggi, è più difficile mettere a fuoco.
Le mie giornate scorrono tra una routine regolare e impegni che mi trattengono più del previsto in Sicilia. Ho orari di lavoro piuttosto fissi, faccende da sbrigare e appuntamenti da incastrare. Vado a letto presto, tranne quando mi perdo in qualche video podcast che mi tiene sveglio oltre il dovuto.
C’è però un’eccezione a questa monotonia: il sabato mattina.
Il sabato mattina è diverso dagli altri giorni: mi alzo presto ma senza sveglia, faccio colazione in terrazza senza YouTube, poi prendo un libro e la macchina fotografica e vado a fare un giro. A volte finisco a leggere in riva al mare, seduto sulle banchine della marina; altre mi perdo tra le vie del centro storico, lasciandomi guidare dall’obiettivo della macchina fotografica, che è più un pretesto per guardare all’insù che per scattare davvero. Altre volte imbocco la pista ciclabile che costeggia la città fino alla Ex Tonnara. Non scelgo mai in anticipo dove andare né cosa fare. Il sabato mattina non ha padroni.
Ma cosa rende così speciale questa mezza giornata?
Ci ho pensato a lungo e ho capito che queste mattinate hanno una connotazione diversa da tutti gli altri momenti della settimana, soprattutto rispetto al resto del tempo libero. Il sabato mattina non ha orari né obiettivi, non è guidato dalla ricerca di svaghi o distrazioni. Semplicemente accade. Ha il sapore di certe giornate vissute in viaggio.
Mi sono specchiato nelle vetrine dei fondi commerciali e mi sono sentito così nudo, esposto. Mi sono chiesto:
È così che trascorrerei le mie giornate se non avessi tutte quelle incombenze che chiamiamo vita?
A volte, in momenti di riflessione un po’ narcisistici, cerco di immaginare come vorrei ricordarmi di me stesso. Mi osservo da fuori, mi descrivo. Vedo una persona che ha avuto il coraggio di rivoluzionare costantemente i propri schemi, che ha saputo essere integra, idealista, sovversiva. Una persona che ha seguito il filo delle domande senza accontentarsi di risposte facili e rassicuranti, che ha assecondato le curiosità più ribelli, scegliendo sentieri lontani dalle rette vie.
Ma alla fine di queste descrizioni, emerge sempre una distanza tra chi sono e chi vorrei essere. E in quello spazio sospeso si rivelano tutte le mie ambiguità più personali.
All’interno di queste descrizioni non compare mai “un gran lavoratore” o “un bravo designer”. Mi immagino piuttosto così: “ha letto i grandi classici”. Eppure, se dovessi osservare le scelte quotidiane che tessono le mie giornate, vedrei una dedizione costante al lavoro, a progetti a cui non riesco a dire di no. E nel frattempo, Tolstoj aspetta.
È come se, nel susseguirsi delle decisioni quotidiane, a scegliere non fossi io, ma qualcun altro.
Uno di quei sabato mattina, seduto su una panchina della terrazza affacciata sul Porto Piccolo, ho comprato quasi per caso L’Avversario di Emmanuel Carrère. Il libro racconta un caso di cronaca nera realmente accaduto: un uomo che, per diciassette anni, ha mentito alla sua famiglia e ai suoi amici, fingendo di essere un medico internazionale e costruendo la sua esistenza su una menzogna. Carrère, però, non si limita alla vicenda. Si chiede: cosa faceva quest’uomo nelle lunghe mattinate vuote, mentre tutti lo credevano impegnato in un ufficio dell’OMS a Ginevra?
Dalle ricostruzioni, pare facesse lunghe passeggiate nei boschi. Forse, in quei momenti, era davvero se stesso, prima che l’altro lato di lui - il truffatore - prendesse il sopravvento.
La parte che più mi ha scosso non è stato l’inganno in sé, ma la sua origine. Un ragazzo modello, brillante studente di medicina, fallisce un esame. Poi arriva la vergogna verso i genitori, il silenzio con l’amico più talentuoso, un senso di inadeguatezza nei confronti della ragazza di cui è innamorato. Una catena di eventi comuni, normali, che potrebbero capitare a chiunque.
Ciò che mi ha spaventato di più è proprio questo: come certe trasformazioni non avvengano attraverso un grande trauma o una scelta consapevole, ma per piccole concessioni, per compromessi invisibili che, giorno dopo giorno, ci allontanano da ciò che siamo.
L’Avversario di cui parla Carrère siamo noi stessi.
Alla fine del libro, mi sono chiesto: chi è il mio Avversario?
L’ho immaginato come un freelance rispettabile, appassionato del suo lavoro, che si impegna duramente per guadagnarsi la stima di clienti e colleghi. In pochi mesi ha quasi raggiunto il budget necessario per un altro anno di viaggi. Pensa al futuro, è responsabile, ha la testa sulle spalle.
Il mio Avversario mi ammalia, mi protegge, si fa volere bene. Ma vuole davvero il mio bene o cerca solo di sopravvivermi?
Mentre finivo il libro, una sera qualunque mi sono imbattuto per caso in una serie tv di cui non avevo mai sentito parlare. A volte, però, le coincidenze si allineano in modo quasi sospetto, come se il mondo cercasse di mandarti un segnale.
Severance racconta una realtà distopica in cui, grazie a un chip impiantato nel cervello, è possibile lavorare per una potente multinazionale separando completamente la propria vita lavorativa da quella personale. Il processo crea due versioni della stessa persona: gli innie, che esistono solo all’interno del contesto lavorativo, e gli outie, che vivono il resto della loro vita senza alcuna memoria del lavoro svolto. Due sé distinti, con ricordi, personalità e persino codici morali spesso opposti.
Gli innie non sanno nulla dei loro outie, ma iniziano presto a farsi delle domande. Perché il proprio outie ha scelto di sottoporsi a questa procedura? Fino a che punto un innie deve accettare la volontà del suo outie senza ribellarsi? Come può l’outie infliggere al proprio innie una vita priva di libero arbitrio, senza provare alcun rimorso?
Man mano che la serie prosegue, alcuni innie cercano disperatamente un modo per comunicare con i loro outie. Altri, invece, decidono di sottomettersi completamente al proprio ruolo, accettando il loro destino surreale senza più porsi domande.
Oltre a un chiaro riferimento al work-life balance, Severance affronta un tema più profondo: il conflitto tra le identità che mostriamo al mondo e le nostre nature più intime, in costante ricerca di espressione. Se mai le due parti tenteranno di ricongiungersi, troveranno un equilibrio solo a un prezzo: entrambe dovranno rinunciare a qualcosa di sé. Oppure, ed è un’altra possibilità, una finirà per prevalere, decretando la fine dell’altra.
Nel romanzo di Carrère, il culmine della vicenda arriva quando, una volta smascherato, l’Avversario prende completamente il sopravvento sull’uomo che lo ha nutrito per anni. Messo alle strette, il padre di famiglia compie un delitto terribile e, nel tentativo di farla finita, appicca un incendio. Poi, all’ultimo, apre la finestra e sceglie di sopravvivere. A quel punto, l’uomo non esiste più. È diventato il suo Avversario.
Ci ho pensato un po’ e forse essere nomadi è anche un modo per sottrarsi agli inganni del proprio Avversario. Cambiare luoghi, situazioni, pelle. Sentirsi temporanei. Una strategia per confonderlo, per evitare che si nutra della nostra routine, per dare più possibilità al nostro innie. Non è una questione di geografia, ma di spirito. Scegliere strade tortuose e sconosciute, piene di bivi, che fanno venire il mal di testa, è sempre meno rischioso che percorrere quelle asfaltate, dritte e rassicuranti, che vanno avanti così a lungo da farci dimenticare dov’era l’uscita.
In questo periodo il mio Avversario sta giocando bene le sue carte. Ma deve sapere che, quando un mare in tempesta lì fuori scuote i toni tranquilli di una giornata di sole, so bene qual è la mia sponda del mare.
Nel frattempo, sabato mattina farò a meno di lui.
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Social Network Detox Club
notifiche • gattini
Sapete che nel 2009 un certo Justin Rosenstein ha inventato il pulsante “Like”? Quella semplice intuizione ha innescato una rivoluzione nella fruizione dei contenuti digitali e nel modo in cui ci percepiamo online. Il problema? I like sono diventati numeri, notifiche, conferme sociali. E il resto lo sappiamo bene.
Beh, lui poi se n’è quasi pentito.
Da tempo ho capito che viaggiare, oggi, richiede un distacco necessario dai social network. Offrono visioni irrealistiche e stereotipate dei luoghi, contribuiscono al turismo di massa, ci spoilerano il mondo, annullando il senso stesso del viaggio. Per questo, ho intrapreso un percorso personale di disintossicazione dai social, che ho deciso di considerare una droga collettiva. In questa rubrica racconterò come sta andando.
«Ciao, mi chiamo Vincenzo e da 50 giorni faccio meno di cinque sessioni al giorno di Instagram.»
«Ciao Vincenzo» risponde il coro.
«Facciamo un applauso di incoraggiamento a Vincenzo.»
A gennaio ho mantenuto una media di due ore a settimana su Instagram.
Instagram è diventato molto più noioso. Mi sto ormai abituando ai sette minuti per sessione massima a cui mi obbliga ScreenZen. Bastano per guardare le stories degli amici e qualche post. Spesso mi annoio già prima dello scadere del tempo. Ho annullato quasi completamente il senso di FOMO, persino per le pagine più interessanti.
Il punto è che, anche i contenuti validi, dentro al frullatore di informazioni di Instagram, si riducono a macchiette che dimentichi dopo dieci secondi. Quando mi serve davvero qualcosa, accedo dal browser. Per fortuna, lì Instagram è una versione depotenziata: il feed non si aggiorna, clicchi su un post e devi ricominciare da capo, le stories si bloccano a ogni pubblicità. Fate una prova, sembra di giocare contro il boss finale ma in modalità facile.
L’effetto più potente che ho notato è aver eliminato quasi del tutto lo stimolo compulsivo di aprire Instagram nei momenti di micro-stress: l’arrivo di un’email a cui non voglio rispondere, il caricamento di un’app di lavoro, l’abbiocco post-pranzo. Sono quelli i momenti in cui il cervello cerca una dose di dopamina immediata. Ecco perché la funzione di ScreenZen, che ritarda di 20 secondi l’accesso, funziona così bene: il segreto è scollegare l’icona dalla ricompensa.
Non è tutto oro, però. Nel frattempo ho aumentato un po’ l’uso di Threads e di YouTube, specialmente a letto la sera e, a volte, la mattina appena sveglio. Ed è un problema, soprattutto quest’ultimo. Scrollare appena svegli altera il ritmo naturale del corpo, ti rende subito stanco. Su questo devo ancora lavorare.
Una situazione interessante: senza notifiche, badge e app superflue, a volte mi ritrovo col telefono in mano, cercando un’app che mi dia uno stimolo. Nei momenti di noia – in sala d’attesa dal dentista, in fila al supermercato – mi sorprendo a swipare la schermata home dell’iPhone, senza meta. Goffo, quasi ridicolo. Per evitarlo, ho iniziato a lasciare il telefono nello zaino, a toglierlo dalla tasca. Sul tavolo lo tengo sempre a faccia in giù e lo sposto lontano.
Ma c’è un aspetto che mi interessa approfondire: le conseguenze sociali. Non avere le notifiche attive crea difficoltà nelle comunicazioni quotidiane. Chiunque si aspetta che tu sia sempre raggiungibile, che legga e risponda subito. Immagino un futuro in cui l’app di messaggistica ti avvisa: Hey, Vincenzo sta leggendo. Sei proprio sicuro di inviargli quel video di gattini che si picchiano?
La palla passa dunque a noi stessi, a come interagiamo. Ogni like, messaggio o DM che inviamo altera l’algoritmo dei nostri amici o, peggio, genera loro una notifica. Vale la pena chiedersi: è davvero necessario?
Quando metto Like, lo faccio perché voglio che quel contenuto si diffonda di più o solo come risposta automatica, un “l’ho letto” digitale? Per questo ho smesso di mettere Like ai contenuti virali: sono già abbastanza potenti, e non voglio esserne complice.
Il Social Network Detox Club potrebbe diventare un punto di incontro, uno spazio di confronto. A chi va di continuare?
Aggiornamenti
organizzazione · contabilità
Dopo un trimestre di lavoro full-time, a fine gennaio ho deciso di interrompere una collaborazione che stava diventando troppo intensa, sottraendomi più energie di quante ne valesse la pena. Ne ho trovata subito un’altra, più piccola e stimolante. Nel frattempo, ho anche rinunciato a diverse opportunità, anche interessanti. Mi sono chiesto: voglio davvero riempire tutto il mio tempo lavorando? Quei soldi mi servono davvero? Alla fine ho detto grazie e ho lasciato andare. Ho già impiegato più di tre mesi, ho già guadagnato qualcosa. Va bene così.
Rinunciare al denaro è sempre un atto liberatorio. Ti fa sentire forte.
Da febbraio ho riorganizzato il mio tempo: collaboro con due startup, con fasce di lavoro chiare e ben definite. E sto già vedendo i benefici. Nel tempo libero ho iniziato a progettare la mia ripartenza e a dare più spazio a questo progetto editoriale. È giusto considerarlo al pari del lavoro, anche se i risultati non si vedono sul conto corrente, ma altrove: nella testa, nelle idee, nel buon umore, negli stimoli.
A gennaio ho guadagnato €2.660 e ho speso €796,35.
Nel dettaglio:
Entrate - €2.660
Frutto di due collaborazioni mensili fatte a dicembre.
Uscite:
Affitto - €0 → Continuo a scroccare casa dai miei.
Salute - €285 → Visite dall’ortopedico, medicinali e una visita dal dentista.
Ristoranti - €217 → Ho ospitato degli amici per Capodanno e, nei giorni successivi, ci siamo concessi cene, pranzi e aperitivi.
Intrattenimento - €86 → Sempre facendo da cicerone agli amici, offrendo loro ingressi a musei e luoghi d’interesse.
Spesa - €81 → Vivendo con i miei, la spesa resta minima: colazione e qualche extra.
Altro → Qualche regalo, un libro e le solite donazioni ai progetti che supporto.
Puoi approfondire le spese nel report mensile sul mio blog. Questo mese trovi anche una sezione sul “Costo della vita” a Siracusa: se stai pianificando una vacanza o un periodo di nomadismo, potrebbe esserti utile.
☞ Report di Gennaio
Approfondimenti
📹 “Mi sto educando al rallentare, quindi se un giorno non faccio nulla non voglio provare i sensi di colpa perché non ho fatto nulla”.
☞ Bernardo Cumbo intervista persone normali che hanno fatto scelte di vita alternative.
📷 ImillaSkate è un collettivo di giovani skateboarders boliviane che ha deciso di indossare fieramente la “pollera”, la gonna tradizionale delle donne indigene boliviane.
☞ Luisa Dörr ha documentato questa scelta politica, femminista, rivoluzionaria.
E infine
È incredibile pensare di avere almeno una cosa sensata da dire ogni mese. Ancora più incredibile è sapere che questa cosa arriva a 478 persone e che molte, poi, la leggono davvero. Giuro, ogni volta sono a tanto così dal cestinare tutto e chiudere la baracca. Quindi grazie, davvero.
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Un grazie speciale a Fausto, Paola e Ciccio per la loro donazione e per aver tirato un bel calcio in faccia al mio Avversario. SBEM!
Quello che dici è talmente tanto giusto, e così pieno di concetti “centrati”, per me in questo momento della mia vita (a dicembre mi sono licenziata e ho deciso di prendermi un anno sabbatico), che ho deciso di salvare l’articolo e rileggerlo una seconda volta con più attenzione fra un po’. Intanto grazie per i molti spunti di riflessione.
Come sempre, bellissima riflessione. E bellissima serie, Severance. Molto più profonda di quanto sembri.