Non si può vivere senza utopia
Vita da Nomade #11 / Lasciarsi ammaliare dal canto di un futuro incerto e incomprensibile
Ciao,
in questo numero racconto per la prima volta di un futuro lontano e del richiamo di un sogno che non ha ancora preso forma. Parlo di randagi, di strade polverose, di incontri fatti lungo la strada e di una direzione che, forse, un giorno avrò il coraggio di intraprendere.
Per i nuovi iscritti, mi chiamo Vincenzo Rizza e da tre anni vivo come nomade. Lavoro come freelance designer, abbracciando uno stile di vita minimalista. Nell’ultimo anno, ho percorso il Sud America dalla Colombia alla Patagonia senza aerei.
Puoi seguire i miei viaggi su Instagram, Polarsteps, leggere i report finanziari sul mio blog e guardare le mie foto sul mio portfolio.
Basta introduzioni, buona lettura!
A tutti i poeti e i pazzi
sirene · randagi
Ho uno zaino da 70 litri sulle spalle, un sacco a pelo ancora sporco di sabbia e un cappello da pescatore. La mia fronte gronda di sudore, e non faccio una doccia da due giorni. Sto risalendo verso il castello di Milazzo, una fortezza spagnola che domina il borgo antico, da cui si possono vedere sia l’Etna che le Eolie. La notte precedente l’ho trascorsa sulla spiaggia di Torre Faro, il punto di ingresso dello stretto, proprio di fronte a Scilla. Ho dormito poco, disturbato dalla musica della discoteca estiva lì vicino, e da coppie in cerca di privacy o ubriachi che, vagando lontano dalla festa, finivano per calpestarmi. Non avevo programmato di essere lì, seguivo solo il vento e una direzione: verso ovest.
Poco prima del castello, noto una torre abbandonata e una stradina dissestata. Decido di seguirla e mi ritrovo su un punto panoramico da cui si vedono entrambi i versanti della penisola. Di fronte a me, l’isola di Vulcano sembra a un passo. Mentre il vento soffia forte, quasi a strapparmi il cappello, apro le braccia e chiudo gli occhi. Inspiro profondamente, tre, quattro, cinque volte, e all’improvviso, un urlo timido emerge dal petto, attraverso la gola. È un grido che porta con sé tutti i passi fatti fino ad allora. Per la prima volta mi sento esattamente dove dovrei essere, pienamente me stesso. Quel giorno, in quell’istante, tutto cambiò. Capii che stavo varcando la soglia di un sogno proibito che si stava finalmente realizzando.
Durante quel viaggio, da Messina a Palermo lungo la costa nord della Sicilia, dormii per strada e imparai a lavare le mutande a mano, attaccandole allo zaino per farle asciugare al sole. Parlai con i pescatori che mi indicavano i punti migliori della spiaggia dove piazzare il sacco a pelo. Incontrai un panettiere albanese, che da giovane aveva anche lui dormito sulle spiagge, e che mi aiutò convinto che un giorno anch’io avrei aiutato qualcuno che avrebbe poi aiutato qualcun altro, che avrebbe potuto essere suo figlio. Dormii su un campo da calcio a Tusa e partecipai al “ballo degli spiritati” di Sorrentini, una processione tra sacro e profano in cui si fa ballare la statua di San Teodoro, un soldato romano condannato al rogo, che secondo la tradizione liberava le persone possedute dal demonio. Chiacchierai con uno spazzino che, con disarmante naturalezza, mi raccontava di aver accoltellato qualcuno. Fui punto da un insetto che mi fece gonfiare il labbro in maniera sproporzionata, e finii per dormire nella spiaggia più terribile e maleodorante di tutta Cefalù, in mezzo alla melma e alle carcasse di vecchie barche abbandonate.
Eppure, dopo aver viaggiato attraverso l’Est Europa, l’Andalusia, le Canarie, il Portogallo, il Marocco ed aver attraversato il Sud America senza aerei, quel breve viaggio di dieci giorni rimane ancora l’esperienza più selvaggia ed emozionante della mia vita.
Cos’è che rese quel viaggio in Sicilia così speciale?
Qualcosa di più del semplice fatto di essere il mio primo viaggio con lo zaino in spalla. Una vertigine nell’aver abbandonato, per alcuni giorni, l’essenza della vita a cui ero destinato: una vita tranquilla, con un buon lavoro e la testa sulle spalle. Un richiamo dalla polvere della strada, da un luogo a cui non appartenevo, cresciuto com'ero in una casa con il frigo sempre pieno.
Quella vertigine l’ho poi sfiorata, saltuariamente, nei viaggi successivi, senza mai riuscire però a riabbracciarla completamente, lanciandomi davvero nel vuoto di quel richiamo. Ho "mollato tutto", certo, ma non ho mai rinunciato davvero al frigo pieno.
Se in questa newsletter ho sempre raccontato le conseguenze di una scelta fatta tre anni fa - quella di fare del mio zaino la mia casa, lavorare come freelance e condividerne il percorso - oggi, invece, vorrei soffermarmi sulle sensazioni che si provano nell’essere accarezzati da suggestioni lontane. Dalle insicurezze del voler diventare qualcosa che non si è ancora, che forse sarà o forse non sarà mai.
"A tutti i poeti e i pazzi che abbiamo incontrato per strada”, esordisce un pezzo dei Modena City Ramblers, che da sempre mi provoca un brivido lungo la schiena. I poeti e i pazzi accomunati dalla strada che abitano, fratelli randagi che vagano gli stessi luoghi, allo stesso livello. Il pezzo ripercorre le esperienze vissute dalla band attraverso tour, furgoni, bevute ed incontri, ed è dedicato al frontman del gruppo, che ha scelto di proseguire la sua carriera come solista: "Un giorno, anche tu hai deciso, un abbraccio e poi sei partito". In quella strada abitata da randagi, le vie di ciascuno si incrociano e poi si dividono, in un mondo crudo, ma popolato da sognatori con le loro utopie e le loro direzioni: "Che le stelle ti guidino sempre e la strada ti porti lontano."
Ma cos'è questa "strada" di cui parla il pezzo?
È un luogo fisico, certo, ma anche uno stile di vita. È una vita lontana dagli uffici, dai letti comodi, dai ristoranti; un modo diverso di intendere le giornate. Le persone che vivono la strada sono randagi, che si perdono tra i vicoli.
Ho avuto la fortuna di incontrare certi randagi, con alcuni ho condiviso un pezzo di strada. Gli amici con cui ho dormito nel deserto di Tatacoa, per terra e senza tenda, che vivevano suonando per i bar e vendendo artigianato nelle piazze. Avevano due spicci in tasca e quasi niente da mangiare. O quei due fratelli argentini che attraversavano la Bolivia in bici: li incontrai a La Higuera, dove non c’era niente per sfamarci. Eppure, loro riuscirono, razionando un pacco di farina e qualche pomodoro, a impastare almeno una pizza al giorno, placando i morsi della fame con mate e sguardi verso l’orizzonte, cantando la vita dei gauchos su una terrazza che affacciava sul tramonto.
Ricordo anche quel ragazzo australiano, forse il primo vero nomade che abbia mai incontrato, che viaggiava per l'Europa dell'Est con un piccolo zainetto nero. Decise di lanciarsi dal ponte di Mostar: un tuffo di 24 metri sul fiume Neretva riservato a pochi. Da qualche parte, nel museo, deve esserci ancora il suo nome. E poi tanti altri: l'insegnante di murga al CPA di Firenze, i trapezisti del Festival di Pennabilli, una coppia di 70enni in camper al molo Santa Lucia, quei giocolieri sputafuoco con cui passammo la notte al Ferrara Buskers Festival, quel signore che costruiva case sugli alberi… e tanti, tanti altri.
C’è un richiamo misterioso e affascinante, una curiosità che porta con sé un profondo timore, ma che nasconde forse grandi ricompense. Ho come l’impressione che tra le insicurezze di questa strada polverosa abitata da randagi si nasconda una verità più profonda, che nella vita agiata si fa fatica trovare. Ne parlano gente come De Andrè, Dylan, Tom Waits, non certo io.
Seguire questo richiamo vuol dire rischiare ancor di più: molto più di una casa e un armadio. Abbandonare gli agi di un buon lavoro, certi scudi caratteriali, i propri rifugi. Esporsi, scendere verso zone ignote e inesplorate, verso quei vicoli che trasformano i loro abitanti in poeti o pazzi.
Farsi accarezzare da queste suggestioni sembra un’utopia. A tratti, una scemenza.
Ed è qui che faccio un gioco, provo a immaginare traguardi eccezionali che a me interessano poco: non sarò mai un grande tennista, né un VIP della tv, né un astronauta o un fisico premio Nobel. E, ripensando alle mie utopie, d’un tratto mi appaiono più vicine, più plausibili, più sensate.
Quando tanti anni fa ero intrappolato in un lavoro che non mi piaceva, senza mai aver intrapreso nessun viaggio zaino in spalla, sentivo un richiamo lontano simile a quello che percepisco oggi. L’idea di fare lunghi viaggi sembrava un’utopia, ma qualcosa dentro di me sapeva che ce l’avrei fatta. Non era una sensazione di certezza o di tranquillità, né mi faceva sentire sicuro o appagato. Era piuttosto un istinto, un presentimento che mi diceva:
“È scritto nel tuo destino. Non scappare.”
Vivere viaggiando è poi diventato realtà. Potrei tranquillamente lavorare per qualche mese, mettere da parte dei soldi e ripartire per il Sud-Est Asiatico, il Messico, l’Australia. Eppure, sento che qualcosa non quadra più. Oggi, un canto di sirena mi invita a cambiare ancora una volta, a spingermi verso la polvere della strada, verso un nuovo tipo di viaggio, vicino ai pazzi e ai poeti a cui non appartengo. Non ancora.
Non ho ancora ben chiaro cosa significherà tutto questo, ma volevo raccontare, a caldo, le sensazioni che si provano nell’intravedere un'utopia, lasciandosi accarezzare dalle vertigini che essa provoca. È come iniziare a percepire un nuovo seme, qualcosa di cui non si conoscono ancora i frutti, ma che scegli con fede di annaffiare.
In un certo senso, è stato facile finora raccontare le conseguenze di aver mollato tutto, a posteriori. Guardandosi indietro, è inevitabile trovare una linearità che rende tutto più comprensibile. Eppure, questa volta, sento di espormi mostrando qualcosa che non ho ancora avuto il coraggio di fare, lasciando da parte timori e vergogne.
Condividere la propria utopia è forse il primo passo verso la sua realizzazione. E tu, avresti voglia di condividerla con me?
“L'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi e si allontana di due passi. Cammino dieci passi e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile.
A cosa serve l'utopia, dunque? A questo: serve per continuare a camminare.”
Paco Ignacio Taibo II
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Sogno nel deserto
racconti · fuochi
Restiamo in tema, con un racconto ambientato nel deserto di Tatacoa, ispirato da quegli amici che ho citato nel pezzo precedente. Si è trattato di giorni di libertà, di amicizia, di notti stellate. Il racconto fa parte di una raccolta di appunti e bozze che aspettano ancora di prendere forma. Nel frattempo, li condivido qui.
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Avevamo trascorso l'intera giornata nel parco di Villavieja, racimolando con pazienza due spicci per la spesa. Comprammo quindi il minimo indispensabile: due casse di birra, un pacco di pane, formaggio e una bottiglia di rum. I fondi scarseggiavano e non potevamo permetterci di pagare una navetta che ci conducesse nel deserto, ma la prospettiva non ci scoraggiò. «Qual è il problema?», rispose qualcuno con sicurezza. «Andremo camminando».
In realtà, io avevo già pagato l'ostello per la notte ma mi presentai, come se niente fosse, con quattro ingombranti zaini che riempirono completamente il mio letto, suscitando lo sconcerto della proprietaria, rimasta senza parole.
Daniela era una presenza riservata ma indiscutibilmente la guida del nostro gruppo. Gestiva gli orari e teneva sotto controllo le finanze con abilità straordinaria. Aveva un talento innato per la contrattazione: ad esempio, riuscimmo a far colazione con soli cinquemila pesos ogni mattina, l'equivalente di circa un euro. Yeyo si perdeva nei paesaggi circostanti, costantemente affascinato dall'esperienza che stavamo condividendo. Con gesti eloquenti, indicava l'orizzonte e le montagne in lontanza e, quando ci fermavamo, il suono della sua tromba rifletteva la sua personalità sensibile e attenta.
Natalia e Karen, dietro i loro occhiali da sole scuri, camminavano in silenzio e, in qualche modo, finivano sempre per adottare cani randagi lungo la strada, attribuendo loro invariabilmente lo stesso nome. Meme, invece, non si separava mai dalla sua chitarra. Si autodefinva un "quasi artista" e, circa ogni ora, faceva una breve pausa per intrufolarsi nei bar della zona, esibendosi in un paio di brani che gli facevano racimolare qualche soldo.
«La vita è davvero straordinaria», mi disse un giorno, uscendo da un bar con una lattina di birra tra le mani. «Posso vivere in questo modo, entrando nei locali, condividendo le mie canzoni con perfetti sconosciuti. Ho tutto ciò di cui ho bisogno, cosa potrei desiderare di più?». Altro che "quasi artista", pensai.
Dopo un'ora di cammino e diverse camionette per turisti che ci avevano sorpassato dirigendosi verso il deserto, un furgone si fermò poco davanti a noi. Dal finestrino si affacciò un signore paffuto con un cappello da cowboy. Sembrava uscito direttamente da uno spaghetti western, e con baffi grondanti di sudore, ci chiese dove stessimo andando. Spiegammo che non avevamo abbastanza soldi per un taxi, ma lui, preoccupato per la nostra salute sotto il sole cocente del deserto, ci invitò a salire tutti nel cassone posteriore del veicolo.
Arrivati ai confini del deserto, Daniela provò a trattare con un campeggio per ottenere un paio di sacchi a pelo e uno spazio dove piazzare le tende, ma la trattativa non andò a buon fine. Decidemmo quindi di addentrarci semplicemente nel deserto e trovare un'area piatta dove poter passare la notte. Il fatto di avere solo una piccola tenda per due persone sembrava non preoccupare il gruppo.
Nel frattempo, il sole tramontò rapidamente e ci ritrovammo avvolti nell'oscurità più completa, con solo le luci dei cellulari a guidarci tra le colline spoglie e le spinose piante grasse.
«Qui andrà bene», ci ripetemmo più per consolarci che per convinzione.
Karen distribuì due fette di pane e una di formaggio. Una cena molto leggera, pensai. Nel frattempo, qualcuno aveva già acchitato una canna, molto più sostanziosa della cena. Un fuoco sarebbe stato perfetto, ma non ne avevamo la possibilità, quindi ci sdraiammo a terra, stretti su un grande telo. Le nostre conversazioni si affievolirono pian piano, fino a lasciarci in silenzio sotto il cielo più stellato che avessi mai avuto l'opportunità di ammirare. Una cassa bluetooth alle nostre spalle diffondeva musica mistica, una melodia che sembrava emergere direttamente dalle viscere della terra.
Non avrei saputo dire né che ora fosse né quanto tempo fosse passato prima che tutti noi ci addormentassimo lì, per terra. Tuttavia, ricordo distintamente, nel cuore della notte, il suono di una fiamma prendere vita di fronte a noi. Un’ombra iniziò a danzare nel cuore della notte, e la osservammo ipnotizzati, mentre faceva ruotare due sfere infuocate, creando scie luminose nell'oscurità del deserto. Rimanemmo in silenzio mentre il crepitio delle fiamme si mescolava al sibilo dell'aria tagliata dalle sfere infuocate. I suoi abiti leggeri ondeggiavano, catturando e riflettendo le fiamme in un gioco di luci e ombre ammaliante ed ipnotico. Era Karen o il suo fantasma?
Le fiamme si spensero e a me parve solo un sogno.
Cosa succede quanto torni?
podcast · transizioni
«Cosa succede quando torni?» mi chiede Elena, mentre ci troviamo nel suo delizioso salotto, in un caldo pomeriggio estivo, nel cuore di Firenze. Elena è una persona brillante, con un’energia contagiosa. Ci siamo conosciuti anni fa, quando i nostri percorsi lavorativi si incrociavano e cercavamo di sostenerci a vicenda. Oggi, entrambi abbiamo lasciato quei progetti alle spalle e ci ritroviamo su strade nuove, portando avanti sfide diverse dalle precedenti. Lei, in piena transizione personale, ha deciso di lanciare un podcast sul tema. Io, appena rientrato da un lungo viaggio, mi sono ritrovato a rispondere alle sue domande profonde e incisive, sorprendendomi di ciò che è riuscita a far emergere. Con la sua voce delicata e la sua empatia, Elena è riuscita a farmi parlare davanti a un microfono in modo quasi coerente e a far sembrare i miei discorsi cose sensate. Un’impresa non da poco.
Ecco l'intervista.
Contabilità
soldi • lilleri
So che siamo quasi a fine Ottobre, ma mi tocca condividere ancora le spese di Settembre, l’ultimo di cui ho i dati completi. Ho vissuto a Siracusa per tutto il mese ma ho viaggiato verso l’Isola d’Elba per un matrimonio, soggiornando lì per una settimana.
La spesa del mese di settembre è stata di €732,47. Ad oggi, la spesa totale dell’anno ammonta a €9.913,29, con una media di €1.101,48/mese.
In questo periodo ho deciso di rimanere a Siracusa, a casa dei miei, una scelta che va oltre l’aspetto economico. Da un lato posso prendere una pausa dagli ostelli, dedicandomi ad aspetti familiari e di salute (che magari più avanti condividerò), dall’altro sto accettando di vivere in un contesto meno dinamico, dove non sono a stretto contatto con altri viaggiatori.
Ne risulta una suddivisione delle spese alquanto particolare, con circa la metà del budget dedicato alle spese di viaggio verso l’Elba, tra trasporti, ristoranti e alloggio. Nella sezione Health rientrano 100€ di iscrizione in palestra, 25€ di certificato medico e 40€ di fisioterapista (la tassa da pagare dopo i 30 anni).
Per quanto riguarda il resto delle spese, ho acquistato un paio di pantaloni a 30€ (in sconto, sempre per il matrimonio), sono andato al Parco Archeologico di Siracusa spendendo 16€ di biglietto (nessuno sconto per i residenti), e 52€ tra spese di internet, Spotify, sito web e Apple Cloud.
Per i dettagli, vai all’articolo.
Un po’ di link
🗞️ Ho trovato una vecchia pagina di archivio dell’Unità, pubblicata il 17 settembre 1997, che racconta il viaggio dei Modena City Ramblers in Sud America e il loro album «Terra e Libertà», sulla cui copertina si trova la frase che dà il titolo a questo numero. ☞ Leggi “I Modena Ramblers & Paco Ignazio Taibo alla ricerca dell’utopia nel Sud del mondo”
📹 Marco è un viaggiatore che ho incontrato per la prima volta in un ostello a Cochabamba. È molto diverso da me: schietto, diretto, condivide le sue storie di viaggio senza filtri e col suo accento marchigiano, mostrando i retroscena di una vita da backpacker. ☞ Segui Marco su Instagram e sul suo canale Youtube
📸 Jean-Louis è un ragazzo baffuto e sorridente, incontrato in un ostello in Patagonia mentre suonava l’ukulele in una giornata di sole. Non sapevo che fosse anche un eccezionale alpinista e fotografo, che sta documentando le sue scalate lungo tutto il continente. ☞ Guarda i reportage di Jean-Louis lungo la Cordigliera delle Ande
“Basta un like” (semi-cit.)
Questo numero nasce da una serie di appunti presi durante una notte insonne, mentre i pensieri sul lavoro mi sovrastavano e mi sentivo svuotato, in un periodo della mia vita dove sembra non esserci spazio a forme di ispirazione.
Eppure, preferisco premere “Invia” solo quando penso di avere qualcosa da dire e così ho atteso il momento giusto per poter fare un po’ di ordine tra i pensieri. Spero di esserci riuscito, anche questa volta.
Se ti è piaciuto questo numero, lasciami un commento 💬 o anche solo un cuore ❤️ per farmi sapere che ci sei. Se è la prima volta che leggi la mia newsletter, scrivimi: mi farebbe davvero piacere conoscerci.
Grazie mille e ci sentiamo il prossimo mese.
Grande Vincenzo! Hai beccato in pieno, e dato parole, anche il mio tema: andare oltre - come fa l'utopia che spinge avanti prima idealmente che concretamente - la scelta di nomadismo fatta finora e prendere una nuova strada, più aderente a come si sta oggi. Ma quale? Bisogna lasciare le porte aperte per far entrare aria, lasciarsi contagiare dagli altri, dalle cose intorno, finché la risposta non arriva. Grazie, quindi, apprezzo il contagio. Ciao, e a presto
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